24 Settembre, 2018
Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino. (MARINA ABRAMOVIĆ, The Cleaner)
Firenze, pochi giorni fa. In attesa sulla piazza davanti al cinema Odeon per la conferenza stampa sulla prima retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramović, The Cleaner, in mostra a Palazzo Strozzi a Firenze dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019.
La mostra è curata da Arturo Galansino, Fondazione Palazzo Strozzi, Lena Essling, Moderna Museet, con Tine Colstrup, Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk, e Susan Klein, Bundeskundsthalle.
Il titolo, The Cleaner, si riferisce a una riflessione di Marina sulla propria vita, a un particolare momento creativo ed esistenziale, ovvero all’espressione e all’atto significativo del “fare pulizia” tenendo solo quello che serve ed è essenziale. Si pensi anche, per analogia di significati, alle accezioni di “mettersi a nudo” o “spogliarsi”. Nelle opere in mostra si trova e torna a rivivere – per mezzo sia di oggetti, fotografie e filmati d’archivio sia di performance dal vivo – quel che resta dopo questo ripulirsi.
La mostra ha un carattere immersivo in un percorso sia tematico che cronologico che si conforma ai tre diversi ambienti dello spazio del palazzo tra Piano Nobile, Strozzina e cortile. A cominciare dalla discesa nei sotterranei della Strozzina, chi entra si immerge – letteralmente – e rivive un’epoca e un’atmosfera precise, cogliendo in prima persona l’energia di quei ferventi anni Settanta (prime opere 1965-1975). Al Piano Nobile le opere con Ulay, le struggenti e spiazzanti performance di coppia dei The Lovers (con Ulay, 1976-1988), e quelle realizzate in solitaria dopo l’incontro/addio con lui, in Cina, sulla Grande Muraglia (opere 1991-2017). Nel cortile, Relation in Movement. The Van, il furgone Citroën dove insieme hanno viaggiato e vissuto per circa tre anni.
LA VITA SENTIMENTALE DI UN ARTISTA: L’artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista, recita tre volte questa voce del manifesto della vita dell’artista, Art Vital, firmato Marina Abramović e Ulay (sic!).
Marina Abramović è un’artista che ha realizzato performance per tutta la vita.
Scopre la performance dopo essersi cimentata con la pittura (nella Strozzina i suoi primi lavori giovanili, pittorici e grafici). Per lei, la performance è una forma d’arte vivente basata sul tempo e alla quale bisogna essere presenti per osservarla e saper stare, a volte, anche immobili. A tale riguardo rammenta la più matura, The Artist is Present, come quella in assoluto più difficile, perché è durata tre mesi e quindi è diventata vita. Oggi il tempo è veloce, la vita è veloce. L’arte, invece, è lenta… Non è stato scelto a caso il luogo per questa performance.Si tratta del MoMA di New York, una città che non dorme mai, dove la gente va e viene continuamente. Nell’opera di Marina l’arte è – viene ad essere – il procedere lento del tempo della vita, cospetto e presenza.
«Negli anni Settanta», racconta in conferenza stampa, «la performance era un po’ terra di nessuno e nessuno voleva accettarla come forma d’arte veramente riconosciuta». Ciò significa che Marina ha lavorato con e sulle performance e che in cinquant’anni della sua produzione ha reso la performance la forma d’arte linguistica e performativa che in quanto tale oggi è riconosciuta. L’invenzione della re-performance, ovvero il reinventare l’idea stessa di performance nel XXI secolo e proporne una rilettura inedita e codificata è stato il suo speciale contributo a essa attraverso la fondazione del Marina Abramović Institute for the Preservation of Performance (MAI, 2010) e della pratica sperimentale che porta il suo nome, l’“Abramović Method”.
Rivolta alla platea di giornalisti e fotografi, racconta ancora di come la performance sia cambiata trasformandosi a partire dagli anni Settanta, quando si teneva a partire da poche persone (trenta, quaranta, sessanta al massimo) e in luoghi che venivano considerati alternativi. Oggi essa è riconosciuta non solo come una forma d’arte vera e propria ma per di più, grazie al supporto delle tecnologie digitali, di lunga durata e fruibile da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo.
Il lavoro che Marina Abramović ha fatto è stato un lavoro sul corpo come materia prima che comincia a significare e sul limite non solo delle sue possibilità e potenzialità espressive ma anche emotive. Un corpo quasi sempre nudo – il suo, quello di Ulay, un’immagine iconica indimenticabile – che emana una certa aura, un’energia, un indubitabile erotismo. L’artista dovrebbe sviluppare un punto di vista erotico sul mondo. L’artista dovrebbe essere erotico (Art Vital, alla voce L’ARTISTA E L’EROTISMO).
L’artista diviene opera d’arte, corpo totalmente a disposizione dell’evento artistico, quindi anche del pubblico. L’artista diviene insieme soggetto e oggetto della performance in atto, ciò che continuamente il pubblico lo fa essere nell’epoca della sua re-performance (quasi una debole eco dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin). L’aura che l’artista emana, e che Marina chiama erotismo, investe le persone, gli oggetti, i luoghi della performance. Persone, oggetti e luoghi diventano in questo senso protagonisti e parte integrante di una forma d’arte nuova dal linguaggio ibrido e dal rinnovato significato simbolico capace di tenere insieme, nello spazio della cornice performativa e nel tempo della scena, elementi eterogenei.
Dal momento che la performance è vista non soltanto come dimensione personale dell’artista (o di performers diversi, nel caso specifico delle opere riproposte dal vivo) ma come dimensione anche collettiva del pubblico, è chiaro che l’aspetto significante della re-performance è la possibilità di rappresentare e interpretare la stessa, la quale si protrae nel tempo e nel contesto della replica nel tentativo reiterato di dare una forma e un senso nuovi e uguali a quelli che sono stati i suoi contenuti originali o originari.
È nel contesto di un palazzo rinascimentale come Palazzo Strozzi che la città di Firenze propone The Cleaner di Marina Abramović come la re-performance di una vera e propria produzione e riproduzione di senso nella sua contemporaneità più nuda, ripulita, spogliata di quello che lei ha sperimentato per prima nell’arco di in un percorso che, fin dagli albori, partiva dalla fisicità dell’artista e dalla materialità presente, pesante, del corpo per tendere all’immaterialità impalpabile, leggera, di una relazione erotica desiderata con il suo pubblico. Perché nella re-performance il lavoro dell’artista esiste anche al di fuori dell’artista stesso come traccia, presenza, segno, la freccia in equilibrio sulla corda tesa dell’arco puntata al cuore di Marina (Rest Energy). The Cleaner non è altro che quella freccia puntata al cuore di tutti.
Testo: Elvia Lepore @elvialepore
Foto: Mariano Barrientos @marianobarrientos.ph